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Musicoterapia con persone sfollate

  • evenruud
  • 28 ott
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 6 giorni fa


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Elizabeth Coombes, Samuel Gracida e Emma Maclean (a cura di) (2025). Music Therapy with Displaced Persons. Trauma, Transformations, and Cultural Connections. Prefazione di Viggo Krüger. Jessica Kingsley Publishers, 288 pagine.


Una nuova antologia curata da un gruppo di musicoterapeuti altamente qualificati su un tema di estrema attualità. Come suggerisce il titolo, si tratta di un libro dedicato alla musicoterapia con persone sfollate, rifugiati, richiedenti asilo o migranti forzati. In particolare, il volume si concentra su coloro che vengono definiti forcibly displaced persons, cioè persone costrette con la forza ad abbandonare la propria casa e la propria terra. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nel 2024 erano circa 117 milioni le persone che vivevano questa condizione. Molte di esse vengono spinte oltre i confini del proprio Paese, ma altrettante sono sfollate internamente.


Conosciamo fin troppo bene questa realtà, ogni sera nei telegiornali: i servizi sulla guerra civile in Sudan, i bombardamenti russi in Ucraina o il genocidio e la pulizia etnica in corso a Gaza e in Cisgiordania.


Che cosa possono fare i musicoterapeuti di fronte a tali situazioni, quando incontrano persone che stanno attraversando trasformazioni così profonde e traumatiche nella loro vita?


Come sottolinea Viggo Krüger nella prefazione, è in gioco anche la questione dei diritti umani: il diritto di ogni individuo alla propria cultura, alla propria religione e all’uso della propria lingua — diritti che devono essere rispettati anche quando ci si trova come rifugiati in un altro Paese.


Un preludio drammatico

Gli editori introducono l’antologia, composta da tredici capitoli provenienti da diversi Paesi. Vengono presentati brevemente i temi, che spaziano tra narrazioni cliniche e articoli centrati sui traumi, e altri di orientamento comunitario e socioculturale, con attenzione alla formazione, alla co-produzione e a pratiche portatili volte a creare legami culturali.


Colpisce in particolare la lettura del toccante preludio: “A Sudden Displacement Due to War in Palestine-Israel, and its Impact on Present and Future Plans”.È scritto dalla musicoterapeuta palestinese Hala Hamdan, residente in Israele e impegnata in un lavoro con bambini israeliani, insieme a Eva Marija Vukich. Le autrici stavano completando il loro contributo all’antologia quando, il 7 ottobre 2023, Hamas attacca e la vita di Hamdan viene sconvolta. Lei continua, finché può, la musicoterapia con i bambini israeliani con cui aveva preso impegno — anche su richiesta dei genitori — ma la situazione diventa insostenibile. Finisce lei stessa per essere costretta a fuggire e a stabilirsi in un Paese europeo. L’adattamento è così difficile e dispendioso in termini di energie che l’articolo deve essere sospeso. Rimane come preludio del libro.


Le autrici spiegano che il loro contributo avrebbe dovuto trattare l’importanza dell’auto-riflessione nel lavoro con rifugiati, la necessità di interrogare le proprie motivazioni, i propri ruoli e le dinamiche di potere che si manifestano nella pratica, al fine di garantire un approccio terapeutico più efficace, dignitoso ed eticamente fondato. Avrebbero anche discusso il valore della scrittura collaborativa, ma anche la difficoltà per le persone in fuga di avere tempo ed energie per confrontarsi con il linguaggio accademico che domina i testi di questo tipo. Invocano solidarietà e reciprocità, un impegno etico, e soprattutto chiedono che i musicoterapeuti prendano una posizione più chiara di fronte all’attacco in corso contro Gaza.


Rassegna della letteratura

Nel primo capitolo, Emma MacLean presenta una rassegna critica della letteratura pubblicata tra il 2014 e il 2024 sull’uso della musica e della musicoterapia con persone sfollate. Da questa panoramica emerge che la produzione sul tema è più ampia di quanto si pensasse. Sono presenti anche alcuni contributi norvegesi, tra cui l’articolo “Håp og anerkjennelse: om et musikkprosjekt blant ungdommer i en palestinsk flyktningleir” scritto da Vegar Storsve, Inger Anne Westby e l’autore di questa recensione e pubblicato in Voices, nonché un articolo di Kaja Enge e Brynjulf Stige, basato sulla ricerca di dottorato di Kaja.


I temi affrontati nella letteratura sono numerosi: traumi e stress post-traumatico in contesti clinici ed educativi, la costruzione della fiducia, il linguaggio e l’identità, il lavoro di gruppo e il capitale sociale, la trasformazione sociale e le connessioni culturali, l’integrazione e l’acculturazione, l’umiltà culturale, la regolazione emotiva, la condivisione di competenze e l’empowerment, tra gli altri. Chiunque desideri approfondire o scrivere su questi argomenti troverà in questa rassegna una risorsa di grande valore.


Una base neurologica per il trattamento del trauma

L’antologia è suddivisa in tre sezioni. La prima è dedicata ai traumi e al trattamento dei traumi attraverso la musicoterapia. Il primo contributo è di Gene-Ann Behrens“Impact of Trauma on Displaced Persons. Integrating a Neuroscience Perspective”. L’articolo offre una chiara introduzione ai principali meccanismi neuropsicologici, ideale come lettura introduttiva al tema “musica e cervello”. È collocato all’inizio del volume, il che ha senso, poiché molti dei capitoli successivi fanno riferimento ai meccanismi cerebrali sottostanti legati al rilassamento, alla riduzione dello stress, e alla percezione di calma e sicurezza — condizioni psicologiche essenziali per costruire fiducia e prepararsi a elaborare esperienze difficili.


Vengono descritti i processi di regolazione e disregolazione cerebrale in risposta alle minacce, i traumi persistenti e i livelli tossici di cortisolo.Si approfondiscono lo sviluppo e la maturazione cerebrale, le modificazioni sinaptiche e gli effetti del trauma.Tra i concetti neuropsicologici discussi in relazione a un approccio “trauma-informed”: neuroplasticità, nervo vago, resilienza, senso di sicurezza personale e co-regolazione tra terapeuta e cliente.


Ricerca danese sul metodo GIM

Il primo articolo clinico è scritto dalla danese Bolette D. Beck, docente di musicoterapia all’Università di Aalborg. Ha condotto ricerche sull’uso del metodo GIM (Guided Imagery and Music) con rifugiate arrivate in Danimarca affette da disturbo post-traumatico da stress (PTSD).


L’articolo, intitolato “Homecoming. Resettlement and Acculturation Processes in Music and Imagery Therapy for Female Refugees Suffering from Post-Traumatic Stress Disorder”, esplora la difficoltà per i rifugiati di trovare un senso di appartenenza in un nuovo Paese e in una nuova cultura.


Viene messo in luce quanto possa essere arduo per i rifugiati creare legami con luoghi, persone, istituzioni e ambienti naturali. L’esperienza della separazione dalla propria terra, dalla famiglia, dal lavoro, dalla natura e dal clima può generare alienazione e stress. Molti portano inoltre traumi pregressi legati all’infanzia o al viaggio di fuga, con conseguenti sintomi dissociativi tipici del PTSD. Uno degli obiettivi della terapia è sincronizzare le esperienze del passato e del presente: il concetto di presentification diventa qui un fine terapeutico essenziale per chi vive la dissociazione traumatica.


Beck offre solide basi teoriche sul modo in cui la musica può facilitare l’esperienza del “qui e ora”, collegando il lavoro terapeutico alla teoria polivagale. Riflette inoltre sulla scelta musicale, sulla comprensione interculturale e sull’attenzione alle condizioni materiali — ad esempio, l’importanza di avere un luogo sicuro e stabile dove vivere, prerequisito fondamentale per poter elaborare i propri traumi.


Il progetto di ricerca viene illustrato attraverso tre vignette cliniche, che mostrano come tre donne siano state aiutate, attraverso l’ascolto musicale e il dialogo, ad affrontare la paura e le sofferenze legate a esperienze tragiche della loro vita.“Homecoming” parla anche del ritrovare il proprio corpo, il proprio mondo interiore e una dimensione familiare in un contesto completamente nuovo.


Musicoterapia psicoterapeutica narrativa

Anche il prossimo articolo ha origini nordiche. Heidi Ahonen, musicoterapeuta finlandese di nascita, lavora da oltre vent’anni in Canada come professoressa presso la Wilfrid Laurier University in Ontario. È anche psicoterapeuta certificata, ha ottenuto il certificato della Harvard Medical School in Global Trauma Recovery e ha sviluppato un proprio metodo di musicoterapia analitica di gruppo.


Anche in questo caso si approfondiscono i temi dei traumi e delle loro basi neurologiche, ma il fulcro dell’articolo è la psicologia narrativa, che costituisce il fondamento della musicoterapia analitica. Il contributo, intitolato “Sounds of Pain and Hope. Storytelling with Music – Narrative Music Psychotherapy Through the Lens of Trauma and Recovery”, descrive in modo dettagliato come e perché la teoria narrativa venga applicata alla pratica terapeutica, e come la musicoterapia possa contribuire a ricostruire una storia di vita più coerente e funzionale.


L’articolo offre un’introduzione chiara, pratica e approfondita alle diverse modalità operative utilizzate da Ahonen per elaborare con i suoi clienti esperienze traumatiche che hanno frammentato la loro narrazione di vita. Si tratta di un approccio realmente psicoterapeutico alla musicoterapia, che integra ascolto, uso di strumenti, improvvisazione e interventi verbali.


Safe & Sound

Il terzo e ultimo articolo di questa sezione dedicata ai traumi è firmato dai musicoterapeuti olandesi Sander van Goor ed Evelyn Heynen, che descrivono il loro lavoro nel progetto “Safe and Sound. A Music Therapy Intervention for Refugee and Asylum Seeker Children”.In questo caso i destinatari diretti dell’intervento sono i bambini rifugiati, e il testo fornisce una preziosa panoramica su come i musicoterapeuti abbiano assunto un ruolo significativo all’interno della scuola primaria olandese, offrendo musicoterapia ai bambini arrivati nel Paese come richiedenti asilo.Il progetto è presentato in modo esemplare anche sul sito web ufficiale: http://www.safeandsoundfoundation.com/.


L’articolo descrive nel dettaglio le metodologie utilizzate, con una ricca cornice teorica di riferimento. Attraverso vignette cliniche viene mostrato come la scrittura di canzoni possa aiutare i singoli alunni a esprimere preoccupazioni personali e vissuti potenzialmente legati a traumi. Il progetto prevede che, all’inizio di ogni anno scolastico, tutti i bambini con background da rifugiati ricevano un’offerta di musicoterapia di gruppo; se emergono particolari difficoltà individuali, viene proposto un percorso di musicoterapia individuale. Un articolo altamente raccomandato per chi lavora nel settore, che — come si legge anche sul sito — può ispirare iniziative analoghe in altri Paesi.


Trasformazioni sociali

La seconda parte del libro, intitolata “Supportive Social Transformation”, raccoglie articoli dedicati alla resilienza, ai bambini nei centri di transito, alla formazione di operatori umanitari in Palestina e alla musicoterapia in Paesi colpiti dalla guerra, come la Colombia.


Il primo progetto presentato è “The Heidelberg Bridges Project”, realizzato da musicoterapeuti tedeschi, musicisti sensibili al trauma e pedagoghi musicali. Si tratta di un’iniziativa volta a offrire a bambini e giovani rifugiati un’attività musicale stabile — e un mezzo per costruire ponti verso la nuova società in cui si trovano. La supervisione è affidata a un musicoterapeuta con competenze psicoterapeutiche. Il progetto viene descritto in modo ampio, con una solida base teorica e numerosi esempi pratici.Tra i temi affrontati, oltre all’importanza di spazi sicuri, figurano la resilienza, la regolazione emotiva e il collegamento tra neuroscienze, “best practice” terapeutiche e un approccio realistico che arricchisce la discussione.


Resilienza

Il progetto offre una solida comprensione teorica, una chiara protocollazione delle attività e giustificazioni esplicite per obiettivi e metodi. Oltre all’enfasi sulla creazione di sicurezza — tema trasversale a tutti i capitoli del volume — il concetto chiave è la regolazione, con riferimento alla teoria polivagale di Stephen Porges, che spiega come il nervo vago contribuisca alla modulazione del sistema nervoso simpatico.


La resilienza è intesa come la capacità degli individui di mantenere o sviluppare una buona salute psicologica e di gestire gli effetti negativi dello stress, nonostante le avversità.Gli elementi fondamentali comprendono un’immagine di sé positiva, l’autoregolazione emotiva e il controllo di sé. Si sottolinea inoltre l’importanza, durante l’infanzia, di aver avuto almeno una figura stabile di riferimento che abbia fornito esperienze positive.Un modello riassuntivo elenca i fattori chiave per lo sviluppo della resilienza: character, competence, confidence, coping, control, connection e contribution.


Bambini nei centri di transito

Nel 2015 più di 850.000 persone raggiunsero la Grecia su gommoni provenienti dalla costa turca; soltanto sull’isola di Chios ne arrivarono 120.000, a fronte di una popolazione locale di 50.000 abitanti. La musicoterapeuta greca Mitsi Akoyunoglou mobilitò i suoi colleghi, organizzando un’offerta volontaria di musicoterapia per i numerosi bambini ospitati nei centri di accoglienza temporanea. I rifugiati provenivano da Siria, Afghanistan, Iran e Iraq; i bambini rappresentavano circa il 37% di questo flusso verso Chios.


Akoyunoglou, docente di musicoterapia presso l’Università Ionica di Corfù, si è formata come musicoterapeuta negli Stati Uniti (Michigan) e ha conseguito un dottorato e un post-doc sempre a Corfù. È inoltre la rappresentante greca presso l’EMTC (European Music Therapy Confederation). Con questa iniziativa attivista, aperta a tutti i bambini, si colloca nel campo della musicoterapia comunitaria. Il suo articolo, intitolato “Researching Safe Spaces, Addressing Ethical Challenges. Music with Children on the Move in Transit Camps”, ruota attorno ai concetti di solidarietà e valori umanistici e altruistici.


Viene descritto che cosa significhi vivere in un centro di transito: il termine chiave è liminalità, tratto dalla teoria dei riti di passaggio di Van Gennep. Essere in un campo di transito significa trovarsi in uno stato liminale — uno spazio intermedio in cui si perdono i propri punti di riferimento: casa, amici, luogo di appartenenza. Si diventa strutturalmente invisibili, esclusi dalla normale partecipazione sociale, marginalizzati e isolati.

L’articolo illustra i metodi di lavoro, gli obiettivi e le sfide legate alla gestione di grandi gruppi di bambini che, durante brevi soggiorni nei campi, partecipavano alle sessioni musicali aperte. Ancora una volta, si parla di approcci trauma-informed, di organizzazione del lavoro di gruppo e di supervisione per i terapeuti.Data la costante esposizione al dolore e al trauma, viene sottolineata l’importanza dell’autocura per prevenire l’esaurimento emotivo.


Musicoterapia indiretta

Le musicoterapeute Elizabeth Coombes e Saphia Abou Amer, entrambe con esperienza di lavoro con la popolazione palestinese, descrivono nell’articolo “Interactive Therapeutic Music-Making (ITM-M) in Palestine” la loro pratica nel proporre musica “interattiva” a coloro che possono beneficiare degli aspetti terapeutici di questo metodo in contesti dove l’accesso alla musicoterapia non è possibile.


In altre parole, si tratta di condividere le competenze musicoterapeutiche formando, ad esempio, musicisti, operatori sanitari, insegnanti, assistenti, genitori e volontari affinché possano condurre attività musicali. La formazione si svolge nei territori palestinesi occupati, e sono i bambini di queste aree a trarre beneficio da tale lavoro.


Si tratta di un’attività progettuale di lungo periodo, composta da progetti con durata definita, monitorati, valutati e collegati alla didattica a distanza. L’intervento è contestualizzato all’interno della cornice storica e politica attuale, con particolare attenzione a temi come gli spostamenti forzati e i traumi transgenerazionali. Considerando anche ciò che sta accadendo a Gaza in questo momento, possiamo trarre preziose esperienze e insegnamenti da questo serio progetto di ricerca e formazione. Poiché ci sono troppo pochi musicoterapeuti per coprire le zone di conflitto nel mondo, l’attenzione nella formazione dovrebbe includere anche la trasmissione progettuale delle conoscenze musicoterapeutiche.


Persone sfollate internamente in Colombia

Il musicoterapeuta e professore colombiano Andrés Salgado Vasco offre un quadro sfaccettato e istruttivo su come la musicoterapia comunitaria possa contribuire in un Paese segnato da guerre e conflitti prolungati, dove oltre otto milioni di persone sono state costrette allo sfollamento negli ultimi quarant’anni.


Durante una mia visita a Bogotá alcuni anni fa, ho compreso che la realtà lavorativa dei musicoterapeuti colombiani può essere molto diversa da quella della pacifica Norvegia. Non si tratta solo di intervenire su ferite di guerra e sui conseguenti disturbi fisici e psicologici, ma anche di lavorare con intere comunità costrette a trasferirsi, traumatizzate e impegnate a ricostruire le proprie vite.


Mi ha colpito in particolare il ruolo della musica nei processi di integrazione, ad esempio nel reinserimento di ex membri della guerriglia FARC attraverso attività musicali e la partecipazione a gruppi locali. Vasco descrive la lunga e sanguinosa storia del Paese, che negli ultimi 185 anni ha conosciuto 25 guerre civili e 60 conflitti regionali, oltre alle innumerevoli fazioni armate, gruppi rivoluzionari e cartelli della droga.


La Colombia, tuttavia, è anche un Paese con ricche tradizioni musicali, dove la musica è stata spesso utilizzata come strumento di lotta e resistenza. Con la sua varietà di generi regionali, strumenti e organizzazioni che promuovono la coesione sociale e l’identità locale attraverso la cultura, la musicoterapia ha trovato un terreno fertile per svilupparsi. Il corso di laurea magistrale in musicoterapia è radicato nell’Università Nazionale di Bogotá, e Vasco offre una panoramica dei lavori di ricerca degli studenti su temi legati a persone colpite da guerra e conflitto.


Scrittura di canzoni democratica

Gli articoli della terza parte dell’antologia hanno come tema “co-creating cultural connections”, e il primo è firmato da Danny D. Kora, musicoterapeuta turco-statunitense cresciuto a Los Angeles, laureato al Berklee College of Music, e dal 2008 residente a Istanbul. Cantante, polistrumentista e compositore, Kora ha una solida base per lavorare con persone in fuga.


Ha partecipato a numerosi progetti collaborando con arteterapeuti, danzaterapeuti e terapisti del movimento, ad esempio per sostenere bambini rifugiati siriani in Turchia e i Rohingya nel campo profughi di Kutupalong in Bangladesh, il più grande al mondo.

L’approccio interdisciplinare è fondamentale, poiché i bambini mostrano interessi diversi: alcuni preferiscono danza e movimento, altri disegno o attività musicali. Nei laboratori di scrittura di canzoni collettiva, Kora applica la sua metodologia chiamata “The Songwriter’s Democracy”. Pur seguendo i principi classici della songwriting therapy, egli enfatizza la partecipazione democratica del gruppo: ogni storia e proposta viene discussa e votata a maggioranza, fino a far emergere gradualmente la forma finale del brano.


Gli interpreti linguistici hanno un ruolo cruciale, così come l’uso di musiche appartenenti alle culture d’origine dei partecipanti. Il metodo favorisce lo scambio di esperienze, l’interazione sociale e produce risultati artistici di cui i bambini possono essere orgogliosi.

Kora e gli altri terapisti formano anche operatori locali per garantire la continuità del lavoro. Inoltre, Kora partecipa attivamente a una rete internazionale di musicoterapeuti che operano con rifugiati, condividendo esperienze e metodologie. Pubblica anche la propria musica su SoundCloud con il nome Danny S. Lundmark.


Genitori ucraini con bambini piccoli a Londra

Il capitolo “Music for displaced dyads”, scritto da Elizabeth Coombes e colleghi, descrive uno studio  in cui la musicoterapia è offerta a genitori ucraini con bambini in età prescolare rifugiatisi a Londra dopo l’invasione russa. L’obiettivo era esplorare se la musicoterapia potesse ridurre lo stress dei genitori e migliorare l’attaccamento con i loro figli.


I partecipanti hanno preso parte a otto sessioni settimanali di gruppo della durata di 45 minuti, con attività musicoterapeutiche varie. Sono stati sottoposti a questionari, test psicologici e misurazioni fisiologiche, in un ampio studio mixed-methods.

Un grande gruppo di ricerca sostiene il progetto, con l’intenzione di ampliarlo in futuro. I risultati sono stati positivi sia nei dati quantitativi (riduzione dello stress) sia qualitativi, mostrando coerenza tra le due tipologie di misurazione.Lo studio è ora pubblicato su Frontiers in Psychiatry:


Videoclip come documentazione e attivismo

Il capitolo “Our Humanity. Creating a music video with an asylum seeker while he was in mandatory offshore detention”, scritto da Emma O’Brian con la collaborazione del violoncellista Blair Harris e del produttore  Craig Pilkington, racconta una toccante storia sull’asilo politico e sull’uso della musica come forma di resistenza.


Il protagonista è “Moz”, un richiedente asilo curdo detenuto per sei anni nel campo di detenzione di Manus Island, in Papua Nuova Guinea, in condizioni disumane. Prima di proseguire la lettura, vale la pena guardare il video su



O’Brian narra come il video sia stato realizzato grazie a registrazioni audio e video con smartphone e comunicazioni via Messenger, seguendo i principi creativi di Moz. Con l’aiuto di musicisti e tecnici, O’Brian ha montato il materiale in un videoclip che, nonostante la costante minaccia di confisca del telefono, è riuscito a vedere la luce.


Il filmato è stato poi proiettato in festival, pubblicato su YouTube e utilizzato da attivisti in tutta l’Australia per denunciare il trattamento degli asili politici. Moz, infine, è stato liberato ed è oggi un artista visivo riconosciuto e una voce per i diritti umani dei rifugiati.


O’Brian, nota musicoterapeuta australiana, riflette anche sul proprio impegno personale per i rifugiati. Sebbene Moz fosse l’autore del testo e della musica, l’esperienza di O’Brian nella songwriting therapy è stata fondamentale per portare a termine il progetto in modo eticamente e artisticamente solido.


Un pioniere del lavoro musicale con bambini rifugiati

L’ultimo capitolo dell’antologia è firmato da Nigel Osborne, celebre compositore britannico, noto per il suo lavoro con i bambini in Bosnia, Kosovo, Ucraina e altri paesi. Il suo primo progetto a Sarajevo, in cui invitava i bambini a scrivere canzoni, mostrò subito effetti che andavano oltre la dimensione pedagogica. Pur non essendo terapeuta, Osborne collaborò presto con musicoterapeuti, diventando un importante sostenitore del campo.

Con la creazione del Pavarotti Centre di Mostar, fu incluso un centro di musicoterapia, oggetto di ricerca della musicoterapeuta canadese Alpha Woodward, documentato in un’intervista pubblicata su



Osborne ha pubblicato numerosi articoli sul tema e, in questa antologia, racconta in modo aneddotico le sue esperienze di scrittura di canzoni con bambini a Sarajevo, Mostar, Libano, Siria e Ucraina. Descrive le sue metodologie, accompagnate da esempi di testi e musica. Parlando otto lingue, è particolarmente sensibile all’uso delle lingue locali e alle radici musicoculturali dei bambini, dimostrando grande agilità nel muoversi tra diversi modi melodici e ritmici.

 

 
 
 

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